Nessun dramma al giorno

 


Le giornate si svolgono come stuoie di sacrifici, e seguono notti inquiete, dove i pensieri si mescolano tra sentimenti e stanchezza. Non ci sono pause tra l'insonnia, tranne il benedetto alprazolam, in mezza dose in più, per scacciare le idee persistenti che spreco il mio tempo, in questo dono di me stesso, al di sopra del vertice dell'altruismo ed è patetico. Una palla di ingiustizia vaga tra il mio petto e il mio stomaco. Mi alzo e vado a prendere il tè, dai cani e dai gatti, dalle immense colombe e tortore che pascolano la pianura piena di fertilità. Le camelie si sono tutte aperte, il fiore del detergente per bottiglie idem, persino il ciliegio sta già provando per il culmine del fiore. Altrove, potevo vedere, nelle foto di Iván, i ciliegi e i peschi in fiore. I miei alberi di agrumi carichi di frutti, mandarini, limoni e arance, abbondanti, crescono nel vuoto del terreno, dove si affollano quando sono maturi o malati. Il pavimento coperto con acqua piovana intermittente. Il pranzo nella testa, tra le dita la vaga inquietudine di trascinare i compiti, uno dopo l'altro, perché i pensieri che mi hanno afflitto non mi tornino in mente. Sono andato in clinica dove ho lasciato gli ordini e la programmazione degli esami. Dovrei anche fare gli esami, ma rimando a qualsiasi giorno, un giorno in cui non mi viene richiesto di dedicarmi agli altri, un giorno in cui mi dedico a me stesso, non conosco date e non faccio divinazioni. Tra le routine di questo giorno o di qualsiasi altro, differiscono poco, così come i miei sogni o pensieri sclerotici per abitudine. Il monaco indossa l'abito delle usanze e dei rituali.
Quando avrò tempo, quando smetterò di rimandare, avrò sicuramente il tempo di andare al mercato degli uccelli e comprarne una mezza dozzina. I miei antenati hanno bisogno di libertà. Chiederò con diligenza e fede, con amore e devozione, che tutti coloro che sono sulla soglia, ancora inclini agli atti ircompiuti della liberazione terrena, della densità che è l'illusione in cui hanno vissuto, possano essere liberati, così come tutti gli esseri umani che ancora camminano su questa terra tra un'alba e un'alba di stagioni successive. Ho sognato due serpenti enormi, uno verde e l'altro marrone, folti, in un piccolo cortile pieno di capoeira e legna sparsa. Nessuno dei due si avvicinò, entrambi grassi in bocca, digerendo forse un pollo, né voltarono le loro teste grottesche e affamate per vedermi passare.
Ho attraversato il ponte delle illusioni. Sapevo che dopo quel passo fatto, poco o nulla mi avrebbe fatto regredire nelle intenzioni con cui mi determino. Le mie dottrine sono cambiate con il passare del tempo, un rosario di clessidre, non so, se mettendo in pausa il tempo, la penna e i pensieri, riuscissi ancora a trovarle, appollaiate sul mio cuscino dove cerco di far riposare lo scheletro e dove il sonno scompare in mezzo a questi cambiamenti quotidiani. Non sono più lo stesso e non analizzo in questa realizzazione nessun tipo di sentimento di autocommiserazione o rimpianto, il rimorso non mi morde e non torno dove stavo, come quei serpenti, quasi andando in letargo perché hanno digerito molto. E ho digerito molto, potrei andare in letargo, ma è esattamente quello che ho fatto a me stesso, mi tengo lontano dalle energie cattive e cerco, da presunto edonista, quelle buone, mi aiuto dalla musica, che è la misericordia di Dio in me, così ricevo e incanalo i misteri che chiamano miracoli. L'amore, nelle sue stratificazioni, mi riempie d'amore per me stesso, come la cipolla che si indebolisce negli strati interni, mi inietto di speranza nelle note musicali, nelle apoteosi, nelle composizioni che di solito sono felici, ma anche in quelle tristi, in quei bellissimi requiem che alterano il battito cardiaco, che addolciscono le tempeste affettive, che magnificano le arti umane nella loro divina creazione.
Tra i piatti e le posate, il soffritto e la preparazione di un'insalata, dove mi costringo a digerire cibi più sani, tra i loro colori e l'improvvisazione di un dolce, procrito un'altra poesia che va alla ricerca del verso giusto, dell'intonazione e del modo di essere servito senza far male, senza far male, con un'anestetizzazione dei ricordi che potrebbe porre fine a qualsiasi guerra umana. I tovaglioli e il tintinnio delle tre zampe dei calici che ho in mano, l'ondeggiare delle mie gambe e il calore della salamandra, la raucedine dell'abbaiare di Balboa fuori, le torrette del Che alla finestra e i bocconcini di Romeo sui miei pantaloni del pigiama appoggiati al bancone. Se in una giornata triste ci sono animali e cinguettii di uccelli, se ci sono brindisi incontrollabili di vento o nuvole spontanee che corrono nel cielo, se c'è voglia di costruire ponti in questo adesso, non c'è insonnia, non c'è serpente, non c'è maledizione e non c'è popolo che possa offuscare la gioia che il Sole ci dona. E apro João Pires, mentre servo il riso mascalzone, molto più mascalzone di me con i fagioli rossi, e distribuisco i vassoi, come se fossi l'impiegato di un hotel dove le tariffe giornaliere diversificate attraversano il Mediterraneo e l'Asia, dei krenners di pollo e una bistecca di baccalà alla griglia e un'insalata condita con un filo d'olio d'oliva e un altro di sidro, dove le sedie aperte sono sistemate per i corpi su cui buttarsi, dove aspettano che gli odori aprano l'appetito della gente e il tempo mi rende schiavo del mio dolce preferito, dopo la cucina ordinata, dopo le coccole agli animali, dopo che alcuni si intrattengono nel telegiornale in ritardo e altri si preparano per un San Valentino e poi, Mi siedo, di nuovo, sulla sedia che mi ha sopportato negli anni e mi dedico a sorseggiare quel liquido caldo e scuro, senza zucchero e senza oscurità interna e il mio sguardo corre sul cellulare sull'applicazione youtube e piano piano a scrivere Yamma Ensemble. Musica sefardita. E poi, mi affretto ad aprire la finestra da dove vedo, con gli occhi posati sull'adesso, sul carro armato e sullo spazio, le nuvole provvisorie e, con il petto aperto, do sfogo alle sensazioni che la musica fa germogliare dentro di me. E dentro di me, un mare immenso si apre a ovest e alla fine, al quale solo io sento l'odore dell'aria di mare e il cinguettio dei gabbiani. E i cespugli di rose si ergono all'orizzonte azzurro, aggravando la nostalgia che provo per un vero campo di fiori selvatici a piedi nudi, su una scogliera dove il mare si vede da qualsiasi prospettiva. La musica radica la mia fede nella bellezza, nella pace che merito. Ed è in questo interstizio che sono egoista e che non mi rimando. Fino a quando è arrivato il momento di altre routine, dove le macchine mi chiamano dopo il filatoio, per appendere le vele della nave alle corde e negli stivali di gomma, per vedere l'acqua bagnarmi i piedi, come se fossero le frange, le lingue di schiuma di mare per vedermi baciare i piedi e gli occhi.

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