Incrociare i ricordi

 


Il ritratto perde il suo colore. Non sono i miei occhi che ti logorano, né il mio desiderio di prosperare che ti toglie la luce, sono le mie mani e la mia bocca, perché bacio il tuo viso e ti accarezzo dappertutto con le mie dita, delineando i bordi del sogno che sei diventato. Una fotografia. Davanti a noi, un mare di decalcomanie con lettere, qualche amplificatore, lunghi righelli e, dietro di te, una vecchia e grande immagine di frutta estiva, il quadro che è sempre stato in quella cucina. A quel tempo, i tuoi capelli erano più corti del solito, ma i tuoi riccioli ravvicinati erano ancora cerchi ben fatti tra le mie dita, quando ti davo le spalle e mettevo le mie labbra sulla tua testa, e con le mie mani perquisivo il tuo collo o massaggiavo il tuo cuoio capelluto, come a confermare che ero ancora tutto dalla parte della gioia,  Tutto intero, tutto io.Una camicia sportiva blu scuro, il blu ti stava sempre bene, con due bottoni sbottonati, dove potevi vedere la tua pelle bianca. La tua mano è ancora tesa verso di me, alzata, e un sorriso dedicato alla conversazione che si è tenuta tra umorismo e intimità. Era un tardo pomeriggio di agosto, quando riuscimmo nell'impossibile, conservare la freschezza delle mura sotto la copertura del caldo insopportabile che rimaneva sulla strada, fino a notte fonda. Rui ci aveva già lasciato quasi cinque anni fa, ma la tenerezza della sua immagine continuava in quella casa, profumandola fin dall'infanzia. Curioso che io faccia questo collegamento di sentimenti e di personaggi con Rui, non perché in quella stanza che è la cucina, dove ti ho scattato la foto, c'erano delle sue foto, ma perché, in qualche modo, associo le decalcomanie e gli elettrodomestici da te costruiti con un altro, molto meno felice, ma altrettanto caldo, pomeriggio di settembre, quando se n'è andato.Ciò che intervalla questi momenti sono né più né meno di cinque anni, l'attività, ma la stessa del dieci settembre del fatidico anno del 1985. Che erano allarmi che ho rintracciato. Quel pomeriggio tu non c'eri. Eri a Porto, a lavorare. Noi tre lo eravamo, tranne te e Antero, che sono, in fondo, i personaggi di questo ritratto fatto da me. Ricordo che, mentre lo facevo, ascoltavo l'album Scissors Cut, If they ever drop the bomb, "you said, I'll find you in the flames" di ottantuno sul giradischi, e lasciavo che la sua voce mi guidasse nel pomeriggio con il suo cuore a New York e una rosa per strada, la mia era con te,  nel pensiero, e il disco a trentatré giri è arrivato alla fine. Mia madre era fuori servizio e ora capisco che si godeva i suoi giorni liberi quando quell'uomo orribile viveva ancora a casa, e quando lavorava, lei lavorava all'uncinetto sul grande divano e Ruizinho, lo vedo nel ricordo laterale del look, Si appoggiò a lei e le fece domande su suo padre e le baciò le guance e il collo. Mia madre lo rimproverò gentilmente, dicendogli che doveva fare i compiti estivi, che le vacanze sarebbero presto finite e che avrebbe dovuto dimostrare all'insegnante che si era applicato, in modo che dimenticare il contenuto non avrebbe portato l'insegnante a tornare indietro nel tempo. Non tornerò a scuola, mamma, ma oh Cristina, perché papà ha dato questa medaglia a te e non a me? L'ho guardato e gli ho risposto di nuovo: perché quando papà è morto, avevi solo un anno, eri un bambino così, non ha avuto il tempo di darti lo stesso! E mentre rivolgeva gli occhi al dispositivo, continuava a pensare al dolore dell'assenza, di avere una figura paterna e di cui, anche se l'aveva, non si ricordava nemmeno di lei. E che questa assenza era così triste, che mi rimaneva il suo dolore e loro due si mescolavano lì, in quella stanza, nei miei pensieri. 

A quel tempo, ricordo, avevo le tende spalancate, in modo che il sole pomeridiano si concentrasse, oggettivamente, sugli elettrodomestici neri, dove, con tutta la precisione che potevo, e seguendo alla lettera le vostre indicazioni, tracciavo le operazioni dell'elettrodomestico, on, off, ingresso e uscita elettrica, nonché il segno dell'applicazione sul frontale,  Un brand che avevi creato per quelli in particolare, a cui ti eri dedicato all'epoca. Non ricordo quel segno. Guardo nella mia memoria, ma mi mancano le informazioni. Il dettaglio. E Antero era ancora a Chaplin, a servire francesinhas e lavare i bicchieri. Nel primo momento, stavamo ancora uscendo insieme, Rui Alberto era ancora con noi, nel secondo momento, se n'era già andato e avevamo un altro Rui, Rui Francisco.Da bambina, di circa un anno, mia madre aveva insistito molto con noi perché tornassimo a vivere con lei, si era già separata dall'uomo orribile e si era sposata e stava attraversando un processo di divorzio da un altro un po' meno orribile del precedente. Ed è stato molto difficile per noi lasciare la nostra casa, ma siamo tornati lì, perché lei non voleva stare da sola e sentivamo la sua tristezza, la solitudine che ha temuto tanto per tutta la vita. Oggi mi chiedo se provassi tristezza per lei o se sentissi l'obbligo di prendermi cura di lei. La nostra Rui stava già camminando, quando abbiamo accettato di vivere con lei, e già diceva qualcosa, diceva padre, mamma, nonna, zio, macchina, palla, moto, non diceva ancora terne, ma nei mesi successivi sì, era già arrivato lì ed era già seduto in cucina, improvvisando batteria e percussioni. È stato allora che abbiamo dovuto portarlo a una batteria vera, nelle band, al diapason e poi comprargliene uno, in modo che potesse sedersi e dedicare la maggior parte della sua giornata allo strumento. E poi, la scuola di Jazz. E poi, il doppio pedale, poi le scope, le "demos" nel colosseo, i rullanti e i tom, la grancassa, le pelli accordate e tese, e l'auditorium della scuola di Jazz, che è stata la casa di Barreiros, Brendan, Nelson Cedrez, Paco, António Sala, Veludo, Júlio Magalhães, la Giornata Internazionale della Musica,  il Big Show Sic e João Baião, la scimmia Adriano e le bellissime ballerine con cui scelse di pranzare, scambiandoci per loro, e poi la sua febbre, che saliva a quaranta e lui che suonava ovunque, in televisione, ai concerti delle band, facendo il sound check e tutta la confusione dei fenomeni circensi che,  Per fortuna, non si è sistemato. La febbre dei tamburi gli fu tolta dallo shock quando aveva già nove anni. Così, facendo semplici calcoli, questo nostro Rui ha vissuto montato su una batteria per otto anni. Perché ha iniziato a giocare all'età di un anno e mezzo. Con un ciuccio in bocca. Con il pannolino di stoffa e la tettarella del pannolino di stoffa per conciliare il sonno, l'addormentarsi con le pause in bocca e le note nelle orecchie, al momento dei concerti, con le bacchette e gli escavatori, e la musica sempre dentro e fuori, dentro di lui che esprimeva canticchiando le pause, imitando Manu Catché, Peter Gabriel,  I Genesis, con la sciarpa rossa al collo che imitava il repertorio di Lino e degli Albatroz, il berretto come quello di Pedro Abrunhosa e quel gilet hippie, e l'improvvisazione, e l'ascolto di tutti i tipi di rock sinfonico che sentivamo. Molti giorni avevano tredici anni. La batteria l'ha lasciata poco dopo che ci siamo separati. La batteria della band era sua. Ha smesso di voler giocare.Era rivoltato e, invece di giocare, preferiva giocare ai videogiochi, ascoltare musica più oscura e aggressiva. Poi, ha iniziato a fare ogni tipo di allergia agli spazi in cui non si era con tua madre, dove io ero senza tuo padre. A quel tempo, dopo che eri uscito, ogni sera insistevo a leggere i suoi racconti per addormentarmi. Resisteva al sonno. E poi, ancora arrabbiata, quando ho sentito un no da parte mia, per qualsiasi motivo, o quando ho chiesto di portarglielo, ho detto che non potevo prenderlo, non potevo essere io, perché non volevo vederti accompagnato e ho detto che dovevo chiamarti perché tu potessi venire a prenderlo a casa. Poi ho iniziato a fare i turni e lui ha iniziato a fare più capricci del solito e ricordo che, prima ancora che ci trasferissimo di nuovo a Porto, mi disse: Mamma, fammi il mio zaino perché voglio andare a vivere con mio padre per sempre. Ho fatto il suo zaino con due cambi, ma ho tirato fuori molti pezzi dagli armadi e lui ha detto:Basta, mamma, se ne ho bisogno di più, papà verrà a prenderlo. E poi lo portavo, prima alle case di creta, poi in Rua da Alegria, e lui andava il venerdì ma il sabato voleva tornare a casa, malato, malato, di cattivo umore, sconfitto. Il mondo, come lo vedeva lui, crollò in novantotto. Non avevo speranza, né lui né io. Quando sei uscito, c'era ancora il set di strumenti nel seminterrato, sparsi per la stanza e lui ha insistito per farmi scendere al piano di sotto, per vederlo suonare e io sono andato, mi sono seduto sul divano, ma il seminterrato è diventato un luogo di oscurità per noi, pieno di fantasmi viventi, di cui nessuno di noi si sentiva bene, essendo lì da solo. E lasciava la pila, a volte dopo mezz'ora, a volte di più e altre volte, dopo cinque minuti, si sedeva con me sul divano, tra le mie gambe e con le sue piccole braccia mi afferrava il collo e mi chiedeva di dirgli di nuovo tutto, perché era successo,come è successo e dopo è successo, cosa sarebbe successo a noi, che non eravamo più una famiglia, non saremmo mai più stati una famiglia intera, senza il padre, e io che guardavamo tutto in quella stanza, le foto e le cartoline sulla bacheca, gli appunti, il cartellone gigante dei tamburi che diceva Drummers do it louder che avevi comprato e tutte le schifezze che ho conservato,  Come se stessi per dimenticare tutto questo, la mia indole era indisposta a disporre di tutto, i mobili, gli apparecchi musicali, le cassette, i fastidiosi Jack Jack sul pavimento, controllavo le lacrime e la rabbia, altre volte non ci riuscivo. E mi sentì ripetere più e più volte che tutto sarebbe andato bene, anche così, che avrebbe continuato ad averti, che avrebbe continuato a ridere con te, a farti compagnia, che da quel momento in poi avrebbe avuto, non una, ma due madri, una che era la sua, e l'altra che era la madre presa in prestito a cui doveva abituarsi,  che finiva per piacerle, che gli offriva delle cose, ma che non era gentile con lui, che era simpatica solo a metà, che era solo mezza buona, mezza buona, ma non mamma, mamma. Non la voglio mia madre. E la distanza restava, i litigi anche, gli oltraggi e gli insulti, quando mi capitava di incontrarla, li sento ancora nelle orecchie, davanti al ragazzo, davanti a te. Nella strada dove abitavo. All'ingresso della nostra casa. E poi, la fotografia consunta, il tuo sorriso rimane, anche il tuo odore e la cosa diventa intensa, quando cerco di dormire senza palliativi, dormo come dormi quando ti alzi presto e fai dei compiti che si distribuiscono nella giornata e arrivi alla fine e vuoi chiudere gli occhi,senza bisogno di tablet, e appoggio gli occhi sulla fotografia e la testa sul cuscino e quando smetto di guardarti e cerco di abbandonarmi al buio è quando ti vedo un po' dappertutto, qui, là, in Paços de Sousa, fuori e dentro il gaiato, a Ramirinho, lì già all'uscita di questa strada orribile, a Porto,  tra le mie braccia, nella mia bocca, nelle mie orecchie, le tue ultime parole dall'ultima volta che ti ho guardato, ogni parola, ogni centimetro di distanza che c'era tra noi, il tuo silenzio nel rumore di tanta gente intorno, che hai sempre tanta gente intorno a te, il tuo sguardo, la tua freddezza,  e il tuo sguardo negando ciò che diceva la tua bocca, scollegati l'uno dall'altro, come se le parole pronunciate non fossero le tue e io le rianalizzo al ritmo del millimetro, Ogni volta, invece intendeva questo, o ha detto questo aspettandosi che io dicessi quello, ma cosa succede se questo e quello e questi se, e queste tesi e tesi e aquilos si riversano dentro di me, come echi di un abisso in cui cado sempre, e sono sempre questo e quello che mi impedisce di spegnere veramente il filo della memoria,  Girandomi verso la fotografia, a volte piangendo fino ad addormentarmi, dimenticando la mia esistenza per riposarmi finalmente dalla tua e dagli altri, non piango più, perché non fa comodo che la gente mi ascolti o perché non saprei controllare il grado di dolore, la dimensione del pianto o l'agonia dei gemiti che iniziano come una richiesta a Dio di riposo e possono sempre guadagnare un'apoteosi tra l'arrotondamento e l'uscita in strada,  per il giardino,Perché la notte illuminata dalla luna mi sconfigge e mi allontana dai miei tentativi di fare a meno dell'alprazolam pastilhinha. Dannazione, come può l'essere umano essere vivo, essere felice, esaurirsi nei compiti e trovare ancora la forza di piangere i suoi sogni? Gli esercizi letterari ristagnano, cioè nel tentativo di esaurire ciò che sento, a differenza della memoria che non si ferma mai. E il suono delle trinità nel campanile mi viene incontro, e mi porta la ganga, i cemintendes, i Camels, i Barclays e tutti i suoni come eterni indizi a cui ritorno, per atterrare subito dopo, con l'audace, bianca luna piena di te che entri nella mia stanza, tre notti di fila, tre notti intere, bella e arrogante,Già alto e ora, sempre più distante, e nemmeno la distanza ti allontana da me. A volte mi sembra di sentirti chiamare dolce, oh dolce!, ma sono io che sogno, sono io che vivo in un mondo irreale ed è in esso che divento residente nello stato permanente. La follia è un luogo che mi accoglie, che non mi allontana da te. 


Torno al ritratto, il volto di Antero sul retro del tuo, che ho piegato la foto in due, che vedo mio fratello con la stessa regolarità del periodo mestruale, sempre più in menopausa, che è alla distanza di un richiamo più o meno regolare, ma a te, tu, oh stella del mare del mio cielo,  Sei davvero irraggiungibile! Tu attraversi il mio cielo fuori e dentro. Tu dai le coordinate e controlli le latitudini sulla mia mappa. Mi concedo troppe occupazioni per non andare da te, mi diverto con altre scene, cose e ancora cose per rimandare quel momento in cui so che tornerai nel mio universo privato. Mi chiedo se non hai la mia anima prigioniera lì, se non mi hai reso un ostaggio al tuo petto, ma onestamente, non riesco a sentire la risposta. Sarebbe come lanciare razzi e raccogliere i bastoni, e quell'esercizio è davvero doloroso! E il dolore cresce nel mio petto e incombe nei miei occhi. Credo di non averti mai detto che tu mi hai reso felice, così immensamente felice, come nessun altro, nient'altro, in questa vita. Siete cresciuti nel tempo e siete diventati questo edificio dell'amore e del decadimento della speranza. In questo scrigno di ricordi, mi sento come il cavaliere della figura triste, vede mulini sono mulini, vede giganti, sono giganti, ma non vede mai la dolce dulcinea. Io sono, infatti, quel cavaliere della figura triste nella sua versione femminile. Che Cervantes mi perdoni. E il dolore del cornuto completa un'altra svolta, amore mio. E nemmeno le forbici affilate di Garfunkel e la bellissima Dulcinea fangosa, nella sua versione maschile. E continuo. Su nel mondo. Solo. Aggrappato. 

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