Morire all'intervallo

 


Ti ho scritto molto, dall'ultima volta che ti ho visto. Ho cancellato tutti i messaggi, tutte le poesie, tutto, tutto ciò che mi univa a voi, tutto ciò che sento e scrivo, ogni giorno. Non so nemmeno se mi avevi bloccato, o se tua figlia o il bavaglino hanno letto quello che ti ho scritto. Non voglio nemmeno saperlo. Era per te. È sempre stato per te. Come se fossi io a parlare. E, in fondo, è sempre stato con me. Non una volta mi hai risposto. Non una parola. Avresti potuto fare lo stesso per me, quando è entrata nella nostra vita, avresti potuto rispettarmi tanto quanto fai ora, con quest'altra persona. Ti scrivevo tutti i giorni, a qualsiasi ora, a volte ore di seguito, come se ci fosse una fonte dentro di me (le fonti nascono dentro di me) collegata al divino e mi prendesse per il petto e facesse suonare le mie dita sulla tastiera come una composizione lirica che sento ancora, solo io, sempre io. Vi ho raccontato di noi, di quello che avevamo, di quello che è successo, di quello che mi è stato rubato, di quello che ho permesso, di quello che ho cercato di costruire dopo, delle mie speranze, sempre eterne, sempre interiori, logore, stanche, e ora sì, dissipate in una nebbia che io stesso ho creato per non vedere la verità. Che non mi ami. E scappare da questa verità. La verità non esiste. Possiamo amare qualcuno che non ci ama. Chi amerà qualcun altro che non lo ama. Che, a sua volta, amerà qualcun altro che potrebbe amare lo stesso. Ti ho scritto come se mi confessassi a mio padre, chiamo sempre padre il mio io superiore, mi piace l'idea di avere qualcuno puro, intoccabile, imparziale che non cede ai miei capricci di creatura e non di creatore. Ti ho scritto. Anche se per me sei stato tu a rivolgermi la parola, perché la tua figura è diventata immateriale e incondizionata. Ti ho scritto quando la luce divina brillava ancora sul mio petto, e io, che soffocavo di nostalgia per te, dovevo dirti. E ho potuto farlo solo a distanza di sicurezza dalla tua assenza. All'amico, molto più che all'amante, perché le tue dita hanno toccato le tastiere e le braccia e i corpi di altre donne e gli occhiali e le posate e i pianoforti e la vita che accade, ma le tue dita sono rimaste su di me. E ho continuato a scriverti con il mio. Come ho sempre fatto. Misurando gli ampere e i volt di ciò che mi unisce a te, decostruendo tutto, ancora con un lampo di fede che accende il mio desiderio. Ti ho scritto tanto. Forse anche più di quanto ti ho raccontato negli anni che abbiamo vissuto insieme. Imperdonabile da parte mia non averlo esposto a parole, anche se era per me, per leggere quello che avevo dentro. Credo che non sempre conosciamo la dimensione dei sentimenti che ci portiamo dietro ovunque. Che diventano palpabili, visibili ad occhio nudo di un buon osservatore. Sono scappato da te e da noi, e te l'ho anche detto per iscritto. Sono fuggito, vigliacco, accettando la sconfitta come se perdendo l'amore, mi fosse restituito un altro modo di vivere, un altro modo di sentire che cancellava la tua assenza in me. Hai lasciato terrazze che valgono tanto dolore quanto la necessaria dissoluzione della nebbia che mi trascina permanentemente in questo luogo privato, dove ti trovo. Sempre in me, intoccabile, incondizionata, in crescita, eloquente. Ma tutti questi aggettivi non sono miei, vengono da te, da ciò che so di te, dalla tua grandezza, dalla tua padronanza e dal tuo dominio in me. Hai suonato le note giuste in me e poi mi hai consegnato al silenzio della vita, allo spazio vuoto dove non eri più e dove c'eravamo solo io e il tuo fantasma. Mi sono abituato a condividere con te tutta la mia vita, tu nell'angolo del mio cuore, con le sbarre di ferro che ti impedivano di svegliarmi nelle stagioni, sei morto, te l'ho detto tante volte, ti uccido tutti i giorni, sei morto o altrimenti, sono stato io a morire aspettando la promessa che non si sarebbe mai realizzata. Ho detto a Jorge, quando era al tavolo delle luci, non ricordo più il nome del partner sonoro, accanto a lui, non ricordo e cerco dettagli che mi portino allo sfinimento, gli ho detto che non potevo volerlo, ma ti guardavo suonare, eri lì, sul palco, con tutti, non era nemmeno giorno,  non mi vedevi e le ho chiesto molto, le ho chiesto per favore di non dirti che sono andato a vederti, da lontano, da lontano, c'era una folla di gente e tu continuavi a suonare e facevo finta che sul palco ci fossero solo musicisti sul palco mentre Ivo cantava, facevo finta di non sentire la sua voce, facevo finta! Dio, come può una donna fingere di non vedere l'ovvio?! E devo aver detto un sacco di parolacce, non ricordo nemmeno cosa gli ho detto esattamente, ma so che ho litigato con lui, come se fossi tu ad ascoltarmi e, quando mi hanno guardato, ho abbassato la voce e ho chiesto, scusa Jorge, scusa, ma vado ad aspettarlo, e lui, di profilo per me, con i suoi baffi e le sue melene scure,  il suo profilo cambiato da un ghigno, come se volesse abbracciarmi e dirmi che era un incubo, che non c'era motivo per me di essere così. Forse gli dispiaceva per me, forse immaginava anche sua moglie e come sarebbe stato vedere il suo dolore, se per caso avesse fatto lo stesso con lei. Non lo so, non lo so, lo so che ho sentito la sua pietà in me quando mi ha detto: pensi che gli piaccia??? Pensare? E ha portato il gergo nella conversazione ed è stato allora che sono scappato. Sono scappato di nuovo. Sono fuggita, come se mi venisse dietro un diavolo che volesse mettermi in croce, come un demone che volesse incatenarmi e costringermi a guardarla con te, lei sul palco a fare i cori, è sempre stata una corista, non è mai andata oltre, ma avevo bisogno di vederlo e mi sono rifiutata di farlo. Oggi, sai, oggi ho bisogno di mollare il carico. Vomitare questo passato che mi ha triplicato di nuovo il giorno in cui sei venuto a trovarmi. Non sei venuto a trovarmi. Sei venuto perché eri lì. Perché non eri solo. Sei venuta perché hai portato nostro figlio e così non saresti stata male, o forse perché potesse andarsene più velocemente, o forse perché avevi un po' di curiosità, sei tornata. Non lo so. So che non avresti mai dovuto tornare di nuovo. Non dovresti. Non sai nemmeno quanto mi è costato affogarti tra le macerie dei giorni e delle notti che hanno seguito la tua partenza! Se lo avessi saputo, forse avresti potuto risparmiarmi la tua visita. Forse lo faresti. Sicuramente lo farebbe. Accidenti! Sei sempre stato sensibile, ti sei sempre preoccupato di non fare danni, di non lasciare lacrime, di non distruggere il mondo intorno a te, mentre passavi. PERCHÉ NON L'HAI FATTO A ME? Me? Perché? 
Non ho mai detto a nessuno vicino a me di questo. L'unico che ha sempre sentito il tuo nome si chiama Fonseca, che si è abituato a scuotere la testa ogni volta che scrivevo il tuo nome. PER FAVORE!!! Il ragazzo, tu, lui continua nella stessa vita, con lei, sveglia Cristina! Cosa c'è che non va in te? La vita passa e tu sei lo stesso! Sempre lo stesso nome, lo stesso sogno! L'idea che ho è che tu sia stato cristallizzato, amico, svegliati! Lui che mi ha portato all'Ordine per essere operato, lui che mi ha visto ubriaco due o tre volte, lui che mi ha detto: ragazza, hai bisogno di essere ricoverata in ospedale! La mia amica Fonseca. Ero con lui circa tre anni fa. Era malato. Ma fare spettacoli comunque. Ha sentito di nuovo il tuo nome, nel parco delle cipolle, qui in questa terra. Ha sentito di nuovo il tuo nome a Nova Doce, ha sopportato di nuovo i miei sogni ad occhi aperti e io gli ho sempre detto: vuoi la verità? Non chiedermi nulla! Ma non riusciva mai a non chiedere. Rispetta solo il silenzio che arriva dopo aver pronunciato il tuo nome, forse perché la tua presenza si diffonde e acquista una dimensione che soffoca la sua voce. Miniera. E vedermi diventare piccolo, nella mia apatia, nella tristezza del tuo nome nello spazio dove tu non ci sei. Forse. Non gli ho mai più parlato. Povero Fonseca! Tanti anni a portare il tuo nome, quando mi chiedi di me. Come ho scritto, avrei potuto scriverti prima e stracciare tutto. Non l'ho mai fatto. Non sono MAI tornato da te, in tutti questi anni. Quando ho osato, ho strappato tutto, ridotto tutto a nulla, al nulla che mi hai lasciato! Non volevo pensare a te. Sognando te. Non mi è stato permesso. Non potevo. Non potevo, per il mio bene e per la mia sanità mentale! TU, che mi conosci meglio di chiunque altro, dovresti saperlo. Mi sono ucciso mille volte, mi sono distrutto mille volte di più, solo per non guardarti, per non vederti, non sono mai tornato alle foto, le ho conservate e non le ho mai più guardate. MAI PIÙ! Ma poi, io vedevo tua sorella, o lei veniva a trovarmi, o io vedevo l'altra sorella, o tua sorella e Almerinda. E tu eri lì, sempre, nella mia testa eri lì, in loro, con loro, con me. Quando è venuta a trovarmi al negozio, ho avuto i brividi di paura. Ma non mi ha parlato di te. Ma tu eri lì, comunque. 


Devi essere molto debole per dimenticare la tua vulnerabilità! Non tornare mai più nel luogo in cui eri felice. E da allora, il precipizio è già lì! Per cercare di ucciderti, dentro, sempre dentro, non sono mai andato a trovarti direttamente. Questo era il principio. Questo regolava tutto. Non poteva fallire in questa regola. È stato il più efficace. Non andare, non vedere, non sapere, non voler sapere. Quella notte in cui sono andato a trovarti l'ultima volta e dove mi sono ripromesso, dopo la commiserazione di Jorge e dopo avergli detto che ti avrei aspettato per tutta la vita, per non guardarti mai più, è rimasto impresso nella mia mente. Le ho detto che ti avrebbe usato come una scala, le ho detto che quando avesse raggiunto quello che voleva, ti avrebbe lasciato e io sarei stato lì, non importa dove, non ci ho nemmeno pensato, pensavo solo che sapevo in anticipo che sarebbe stato così, il tempo era un dato irregolare, misurato dall'afflizione di averti perso e di averti ancora a portata di una mezza dozzina di passi,  Se osassi darglielo, quindi, cosa accadrebbe forse tra due o tre anni, cinque al massimo, e ne sono passati molti di più. Sei andato alla scala. Tu eri usato. Tu. Anch'io. Prima. E poi. Ho lasciato che mi usassero. Ho lasciato che mi uccidessero più e più volte fino a quando ho voluto davvero che fosse quella vera, l'ultima morte. Finché il dignitoso, il più grande, quello del corpo, quello della terra, quello che tutto consuma e riduce in cenere ciò che non ho mai saputo cancellare da me, ti strappi dal tuo petto. Cosa sono le barre di ferro o d'acciaio all'interno del torace? Un respiro in meno, quando si respira esausti. Esausto. Morire è sempre stato un vantaggio ambito. Previsto. Perché moriamo ogni giorno, quando dormiamo. Ogni giorno, se dormiamo. Morire. Moriamo e non moriamo mai del tutto. Cosa non ci lascia morire quando questo è il nostro desiderio? È un soffio di vita che ha dimenticato di appassire. E continuo a cercare vigliaccamente di sminuirti durante il giorno e arriva la notte e ti sento chiamarmi, mi chiami per nome mentre dormo e quando mi sveglio, non lo sei. Non lo sei mai più stato. Mai, mai, mai. Tutti muoiono, tranne me. Tutti dormono, perché non io? L'attività non è stata completata. E non possiamo rinunciarvi. I compiti devono essere completati, portati a termine fino alla fine. Gli impegni che sono stati scritti sul filo invisibile e che rimangono al di là della nostra volontà o forza. Il sipario che cala e attutisce gli applausi di chi rimane in vita dopo la nostra partenza. Poi, gli applausi finiscono, la gente esce di scena, qualche osservazione, qualche piuma che cade come una lacrima che si asciuga, prima di uscire dal palazzo, un uccello frusciante, qualche sorriso attutito anche dal politicamente corretto, poi si sentono i passi sempre più lontani fino a diventare solo un battito d'ali. Le tende puzzano di muffa. Le luci finalmente si spengono e quello nelle scene opposte, con la birra in una mano, il tabacco nell'altra, scende le scale, l'uomo dell'impresa di pompe funebri, quello del gufo, nel suo abito impeccabile che è lo stesso che porta ai matrimoni, Dário, il tizio che vede la morte mentre io guardo il dorso dei libri,  Per vedere se li riconosco, continua a scendere le scale, uno alla volta, a passi strascicati e si sente la musica in lontananza. Mi sembra che non sia il mio. Non sono ancora io. Il mio turno non è ancora arrivato. E nel frattempo, mentre aspetto con il biglietto in mano, un uomo brutto e ubriaco attraversa, barcollando e portando un tridente. Mi sorrise, sciatto e simile al telegiornale. Si presenta, dicendo che sembro stanca. Gli dico che lo sono. Stanco. E lui mi dice di godermi il suo soggiorno. Che tu prenda una sedia e mi faccia sedere. Che lui è Nettuno e che non c'è altro da fare se non dormire. Dormirci su. E quando mi accingo a farlo, uno viene con un'aria severa, più pura, meno ubriaca, più esigente, con la stessa aria circospetta di Berto, quando non ride, portando una canna in mano e mi dice che è Saturno. E che tu vada a pescare e quando torni, vuoi che ti abbia cancellato PER SEMPRE dalla memoria. E non sapevo nemmeno che Saturno sapesse pescare. O che fosse benevolo. Che mi offre una scadenza ragionevole, come i professori universitari. Non è un quarto. Non credo che mi dia più tempo perché non vuole che il suo rispetto o la sua fama vadano persi. E lui discute qualcosa nel mio orecchio. Questo mi aiuterà. Finalmente un'anima caritatevole, seria, disposta ad aiutarmi in questo processo. Non c'è ancora il numero, me lo lancia addosso, dietro il collo, lui, come a dire, il fiume è a Porto, vado a piedi, ci metto circa tre settimane a prendere qualcosa ed essere tornato. Mi grigliate il pesce del fiume Douro e poi parleremo. Porterò con me un dono. Ti prometto che ti piacerà. Questo proveniente da Saturno, mi lascia con la pulce dietro l'orecchio. Saturno non è mai stato un luogo di piaceri e svago. Entrerò attraverso il legno all'interno. Forse fallirà anche il fottuto esame. Ma oggi ho iniziato a bruciare il palcoscenico del tempo che mi ha dato. E siccome ho lasciato tutto nella vita da risolvere in ginocchio, lascio tutto all'ultimo, ho deciso che cambierò questo in me stesso e basta. Per aver anticipato i compiti dell'insegnante malvagio.Tu sei il primo a morire. E dico questo, non sapendo se quando morirò, non sarai tu a suonare la marcia funebre, la musica che ho progettato per toccarmi alla fine. Ma allora solo Saturno e forse il brutto Nettuno mi aiuteranno. I compiti sono già iniziati. Non sono preoccupato per i voti o il vantaggio. Ho intenzione di finire tutto prima dell'arrivo di Saturno. Non mi è mai piaciuto il pesce fritto del fiume. Solo tu. E il gioco è fatto, vi lascio immersi nelle acque. Annegare oggi. Se Jorge mi leggeva, rideva molto perché non riusciva a vedere la mia faccia. Perché era angosciato da quello che vedeva. Divento più brutto di un Nettuno barcollante, molto più che se avessi solo una crisi di sinusite, in cui mi calpesto tutte le vene del viso, cercando di alleviare il dolore. La mia unica gioia al momento è l'alprazolam. Solo cinque milligrammi e Neptune che fa il resto, prestandomi una delle sue canzoni per farmi dormire.  Le onde vanno e sembrano tornare, ma è tutta un'illusione, l'acqua non è più la stessa, l'intensità è diversa, la schiuma e anche la nebbia sono cambiate. C'è qualcosa tra la spiaggia e lo spazio tra la spiaggia e il fondale marino. Ed è acqua, molta, e solo l'acqua può portare l'acqua che io porto nei miei occhi a causa tua. Ed è in esso che ti immergo, mentre brucio le ore, le sigarette, la stupidità, a fuoco lento, che a Saturno non piace che scorra niente, è tutto malembe, malembe, e io sono sempre stato obbediente, seguo le sue istruzioni. Per prima cosa, cancellerò il tuo nome. No, ho intenzione di invertire la rotta. Onitsuaf. Roma. Adiv. Ora il mio. Anitsirc. Domani cancellerò le tue lettere e ti ridurrò alla dimensione in cui nemmeno una lente d'ingrandimento potrà leggerti in me. Saturno sarà contento di me. Mi pongo degli obiettivi. Scelgo la musica che accompagnerà l'inizio della tua fine. E vado da Kurt Weill, Brell, Ferré. Comincio la fine qui. Con Adriana Queiroz. Con il tempo masticato. Con le corde intime e con il male che trattiene te, tu, nella tua vita, me nella vigliaccheria che ho scelto per iniziare a smantellare il dolore della tua presenza rimasta in me. Muori Dantas. Muori, pim. 


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